Trattandosi di progetti sviluppati nel campo della modellazione 3d, possiamo immaginare che il modello possa esser esportato utilizzando il formato aperto OBJ, perfetto per lo scambio di dati nella grafica che ne rappresenta la geometria 3D, ossia la posizione di ogni vertice, di ogni coordinata UV per le texture, le normali e le facce che compongono il modello.
Nel caso di progetti BIM, però, il formato OBJ è un modello carente dal punto di vista delle informazioni, che invece sono l’ingrediente cardine della filosofia BIM. Per fare in modo che al modello 3d vengano associate le relative informazioni si possono utilizzare formati di file di tipo aperto per l’interscambio del modello BIM: il più gettonato è il formato IFC.
IFC ping pong
Oltre ai vantaggi derivanti dal formato di file aperto, il file IFC permette anche di trasmettere un modello non modificabile: credo che ogni professionista abbia il piacere di non vedersi modificato il modello da ogni figura coinvolta nel progetto ma che preferisca che gli si vengano indicate solo le correzioni più evidenti e importanti. Si viene a configurare per il progettista una specie di “professional clash detection” a mano, che assorbe tempo e risorse. Metodologia di lavoro che va in aperta contraddizione con i principi fondanti del BIM e anche del buon senso.
Nel mondo BIM, i modelli interscambiati tramite IFC non sono copie “live” del modello architettonico in cui chiunque può attuare delle modifiche, ma si tratta di copie compatibili dei modelli originali sviluppati con i software di BIM authoring. Si tratta di effettuare quello che spesso definisco scherzosamente “IFC ping pong” ma che credo sintetizzi bene l’idea di un ambiente collaborativo e strutturato per cicli di revisione, che aiuta a definire gli scopi e le responsabilità di ciascun partecipante al progetto.
Certo è che, se già molto tempo fa si fossero utilizzati formati di file aperti come standard nella digitalizzazione della progettazione, ore le cose sarebbero ben diverse. Infatti, nonostante già nel 1994 nascesse il consorzio Internation Alliance for Interoperability (IAI), che si trasformò nel 2005 in buildingSMART, quegli anni non erano ancora maturi e il mercato ha preferito puntare su soluzioni prevalentemente proprietarie. Solo dal 2012 si inizia a parlare di Open BIM, che promuove un metodo di lavoro basato sull’impiego di formati neutrali come IFC, Xml, BCF, COBie, e57, xyz e altri.
L’interoperabilità si è palesata come caratteristica fondamentale nella collaborazioni già all’epoca del passaggio dal disegno a china manuale a quello digitalizzato in CAD; non a caso oggi ogni norma fa riferimento a piattaforme interoperabili aperte e neutrali. Questo concetto ha avuto sviluppi nei settori del GIS, della gestione della nuvola di punti, nel ritocco fotografico, nella modellazione e renderizzazione, nelle soluzioni di Common Data Environment, per il Facility e l’Asset Management con la nascita di software open source dedicati.
Continua nel prossimo articolo: “La diffusione e la conoscenza dell’Open BIM“
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